mercoledì 12 gennaio 2011

Piano piano la situazione rientrò e dopo due ore riuscii persino a sbocconcellare una fetta biscottata in dieci minuti. Era passata ed io "mi portai" a letto, sfinita senza avere neanche la forza di rimboccarmi le coperte. Lo fece l'amore della mia vita, baciandomi sulla fronte e accarezzandomi, poi mi prese la mano e così, finalmente, dopo tanto travaglio mi addormentai. Al mattino dopo non sentii la sveglia nè mi destò la luce ben viva di quelle prime ore di un giorno d'aprile. "Resta a letto, riposa. Prendo il caffè e vado via." Ancora un bacio e poi restai sola, come in trance, dolorante e abulica. "Mamma, come va?" mi scosse la voce di Valeria; "Non ti alzare. Ti porto qualcosa?" Le chiesi un succo di frutta, altro non desideravo, mi dava nausea anche l'aria della stanza e l'odore del mio corpo. Eh sì, le sensazioni che si provano in quei momenti sono uniche e certamente non comprensibili per tutti, a volte possono apparire anche esagerate, non lo nego, però sono autentiche; intenzionalmente io ho voluto conservarle ben stampate nella mia anima, non per masochismo ma come promemoria allorchè, dimenticando qualcosa di ciò che è stato mi tornasse l'insana voglia di tornare indietro e dare importanza ad inutili affanni.
Seguii il consiglio di Valeria, ma a mattino inoltrato non ce la facevo più a stare così, mi pareva quasi che aumentassero i dolori alle ossa stando sdraiata e allora mi alzai, a fatica ma mi alzai. Guardandomi allo specchio non mi riconoscevo proprio; pallida, con le occhiaie e in testa i capelli che si facevano sempre più radi, ero l'immagine della chemioterapia. Ma io la rifiutavo, non volevo che mi si vedesse così, neanche in casa, era troppo triste prima per me stessa poi per gli altri. Forse qualcosa la potevo fare, anzi dovevo farla con la determinazione che nasce dalla volontà di tornare a galla quando credi di aver toccato il fondo.

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