domenica 31 ottobre 2010

Continuo a... vivere ricordando ciò che è stato dall'inizio della malattia e tutto quello che mi ha insegnato e ancora mi insegna. Quando vivi un'esperienza simile e la superi con l'aiuto dei medici e la forza che hai dentro niente più ti può spaventare; ti viene fuori un'energia, un entusiasmo tale che tutto intorno a te è positività. Le difficoltà non ti sembrano più tali, i dissapori tutti superabili, i contrattempi giusti interventi perchè le cose vadano meglio. In ogni occasione sei subito pronta a mettere un punto e tornare a capo, perchè a tutto c'è una soluzione e si può sempre ricominciare con rinnovata volontà.
Tre giorni fa mia figlia è partita; ero triste, sentivo un vuoto, un freddo dentro. Ho preferito restare in silenzio per poter metabolizzare questo mutamento di una mia certezza, poi l'ho sentita più volte al telefono, gioiosa come non mai e mi son detta: "Ho la mia vita che mi sto riconquistando, la voglio tutta nuova, tanti progetti, tanta voglia di fare. Basta! Guardo avanti e rimescolo tutto cominciando dalle piccole cose anche le più banali."  Ho svuotato un portariviste quasi dimenticato che conteneva giornali con il prezzo ancora in lire, (mamma mia, che trascuratezza! ) e vi ho messo le riviste di questa settimana; ho ripulito una mensola in cucina, gettando nella pattumiera ninnoli scheggiati dalla vita trentennale, e poi mi è venuta la voglia di cambiare posizione ai mobili di casa, fatto questo che per alcuni può sembrare piccola cosa, ma nel mio caso costituisce un'autentica rivoluzione perchè sono sempre stata una metodica che veniva destabilizzata dall'abbinamento sbagliato di una coppia di asciugamani e dal cambio dell'ordine di una pila di giornali. Beh,devo dire proprio che qualcosa sta davvero cambiando in me a poco a poco, me ne accorgo ogni giorno che passa, me lo ha detto stamattina anche l'uomo della mia vita:
"Però come sei cambiata in pochi mesi, sei diversa, più serena con gli occhi brillanti, più bella". Grazie, amore mio.

sabato 30 ottobre 2010

Dopo una settimana avrei dovuto essere chiamata per conoscere l'esito dell'agobiopsia; ormai erano passati due giorni e questo non era avvenuto. Era la Domenica delle Palme, decisi di farmi vedere in reparto il giorno dopo, lunedì. Avrei iniziato così la settimana santa, settimana di passione e avevo anch'io la mia croce. L'ascolto del Vangelo di quella giornata mi coinvolse molto emotivamente, Cristo aveva patito per il bene dell'umanità, aveva subito percosse, umiliazioni,e tanto altro non per scontare una propria colpa ma per redimere gli altri uomini, perchè uomo lo era anche lui. Dio  Padre lo aveva mandato a questo scopo e Lui aveva adempiuto al suo compito per amore e con infinito amore. Che fosse valsa la pena, questo poi  lo giudicherà ognuno secondo la propria sensibilità, cultura, capacità di riflessione, per Cristo sì, era valsa la pena e lo sarebbe stato anche per un solo uomo, come si evince dalla parabola della pecorella smarrita. A questo punto mi viene spontaneo fare un parallelismo, non che mi voglia paragonare a Gesù, ma anch'io tante volte in questa occasione ho pensato di poter offrire le mie sofferenze a Dio perchè sempre meno donne incappassero in questo "incidente di percorso". E anche, come Cristo aveva chiesto in un momento di debolezza che fosse allontanato da Lui  quel calice, così anch'io avrei voluto scappare da quella realtà perchè troppo dura e scomoda. Era strano come la domenica io sentissi maggiormente il peso del fardello; la mia condizione strideva con il clima di festa e di conseguenza cambiava anche il mio stato d'animo,stabile negli altri giorni della settimana. Che Dio mi aiutasse, altrimenti non sarei mai stata capace di andare avanti.

venerdì 29 ottobre 2010

"Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive,sono scoccati in avanti." Qualcuno l'ha scritto, oggi io l'ho imparato. Stamattina Valeria, mia figlia è partita, ma non per uno dei suoi soliti viaggi, è partita per non tornare,  tornerà quando vorrà e se potrà. E' andata via per poter realizzare i suoi sogni, lavorare, affermarsi, essere indipendente;  avrebbe dovuto farlo già da tempo perchè in cinque anni dalla laurea si era cimentata in ogni tipo di lavoro senza ricevere alcuna certezza, poi quest'ultimo anno la mia malattia l'aveva bloccata del tutto ed ora era stanca, stanca delle poche cose insoddisfacenti che aveva fatto, stanca di non poter fare neanche quelle. Ha detto basta con determinazione, e con coraggio ha posto fine al tempo che vedeva scorrere lento e improduttivo.Chi è madre sa bene cosa si prova in queste situazioni, sono momenti critici, di scelte definitive e si teme di sbagliare; certo è che all'improvviso ti vedi la casa vuota e vorresti poter tornare indietro nel tempo, a quando avevi i figli piccoli e ti illudevi che sarebbe stato sempre così. Ma indietro non si può tornare e non si può guardare neanche troppo avanti perchè la vita dei nostri figli è solo loro e loro soli sono gli artefici della vita stessa. Oggi lei è partita ed io sono stata molto triste; alla stazione i suoi occhi brillavano di entusiasmo per la scoperta di questa nuova realtà, i miei erano lucidi di lacrime tenute a freno. No, non si può esser tristi e piangere quando un figlio è felice, è una cosa contro natura, si gioisce con lui mettendo da parte il proprio egoismo e si depone per sempre il ruolo di chioccia. "Mamma, dai non ti preoccupare", mi ha detto poco prima di salire sul treno, accarezzandomi "la parrucca" e dandomi un bacio. Era giusto così e son tornata indietro ma con il magone.
A conclusione di questo mio sfogo carico d'emozione, voglio riportare questo testo su cui qualunque madre  potrà riflettere e imparare tanto.


                                                                            I Figli
I figli non sono i vostri figli.
Essi sono i figli e le figlie della vita che brama se stessa.
Vengono per mezzo di voi ma non da voi,
e benchè essi siano con voi comunque non vi appartengono.
Potrete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri,
poichè essi hanno i loro pensieri.
Potrete ospitare i loro corpi ma non le loro anime,
perchè le loro anime abitano la casa del domani,
che voi non potrete visitare,
neppure nei vostri sogni.
Potete tentare di essere simili a loro,
ma non farli simili a voi.
La vita procede e non s'attarda sul passato.
Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive,
sono scoccati in avanti.
L'Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell'infinito,
e vi tende con forza
affinchè le sue frecce vadano rapide e lontane.
Affidatevi con gioia alla mano dell'Arciere,
poichè come ama il volo della freccia,
così ama la fermezza dell'arco.
                                     da: "Il Profeta" di Gibran Kalil Gibran

giovedì 28 ottobre 2010

Nei giorni che seguirono la domenica stetti nel limbo di un'attesa, pregando e sperando. Dall'esito dell'agobiopsia si sarebbe stabilita la mia sorte per i mesi a venire e anche il tipo d'intervento che avrei dovuto affrontare. Col pensiero avrei voluto vivere i giorni futuri per poter vedere che cosa sarebbe accaduto, arrivare alla fine di quel lungo percorso che non avevo ancora iniziato e finalmente respirare. Un anno prima, proprio di quei giorni piangevo perchè Valeria stava per partire alla volta del Messico; che stupidaggine! E quante lacrime sprecate! Quando sentivo perdere il controllo della situazione mi piegavo su me stessa schiacciata dal vittimismo più ostinato. Mi rendevo conto di sbagliare, eppure andavo avanti col piangermi addosso finchè non mi sentivo un po' meglio: l'autocommiserazione era diventata la mia valvola di sfogo e tormento per quelli che vivevano con me. Anche allora, con l'avvento della malattia, a tratti mi sentivo come se fossi stata l'unica a dover affrontare quel problema. Certo che non era così! Avrei dovuto ripetermelo più volte altrimenti avrei vissuto male e con me le persone che condividendo la mia difficoltà, fatalmente si trovavano a soffrirne. Del resto lo sapevo bene che nello stesso momento tante donne pativano come me per lo stesso motivo ed io non dovevo abbattermi, dovevo continuare a... lottare per vincere. A tale scopo non mi ero chiusa in me stessa, avevo confidato la mia pena a tutti, amici, vicini di casa, semplici conoscenti. La solidarietà della gente la sentivo anche quando semplicemente andavo a fare la spesa, perchè la mia amica Sandra, sapendo tutto, mi dava la frutta migliore e la verdura più fresca, e Agostino, il mio macellaio, mi teneva da parte il taglio di carne di prima qualità. E tutte le mie amiche del quartiere? Era un continuo incoraggiarmi da parte loro, senza pietismi ma con parole serene. Così condividendo il mio male con gli altri mi sentivo coccolata, meno sola, meno sfortunata. Quindi non c'era più posto per alcuna forma di vittimismo, sarei cambiata cominciando col considerare il tumore solo un ostacolo che avevo trovato lungo il percorso della mia vita.

mercoledì 27 ottobre 2010

Ed era quello che io desideravo, una strada da percorrere finalmente senza intoppi che mi portasse verso la guarigione, a vivere di nuovo in serenità con la mia famiglia. Ed intanto era arrivata un'altra domenica; da due giorni ero a casa, ma mentre il giorno prima mi ero mostrata allegra, euforica, presa da una sorta di eccitazione per non so che cosa e comunque contenta per aver fatto qualche passo in avanti, quella mattina non era così. Mi aveva svegliato un respiro profondo, quasi un dolore e una fitta pungente che mi attraversava a sinistra si trasformò in  una fitta di tristezza latente. Mi muovevo per casa e quella sensazione mi accompagnava costantemente, ma io volevo sentirmi meglio perchè avevo bisogno di tanta forza per affrontare tutto. Un po' mi rasserenai all'ascolto della pagina del Vangelo in quella V domenica di Quaresima; si trattava della Resurrezione di Lazzaro e mi diede da pensare. Non ci si può rialzare senza esser caduti prima, non si può tornare a vivere se non si è preso conoscenza della morte. Pensai a quanto facilmente io passassi da uno stato d'animo a un altro completamente contrastante; era quello un momento di transizione e quindi di crescita forte per me. Con la presa di coscienza della malattia ero caduta, arrancavo per rialzarmi, lo volevo tanto e ci sarei riuscita. Consapevole di quanto la mia vita prima avesse avuto poco senso, perchè sempre presa da problematiche assurde ed inutili, morivo a me stessa per risorgere a nuova vita una volta che fossi guarita.
Andammo a pranzo fuori, diciamo così, per festeggiare e mi sentii rituffata nel mondo, quasi frastornata dal brusio della gente "normale" che parlava di cose "normali", quasi stordita per gli svariati profumi non avvertiti per qualche tempo, quasi accecata dalla luce un po' smorzata da un cielo cupo che segnava una pausa in quella primavera appena iniziata.

martedì 26 ottobre 2010

" Tutto bene, signora? Bentornata! " Così mi accolse Massimo quella sera, mentre con mio marito entravamo nella sua pizzeria come ogni sabato. L'ultima volta era stata due settimane prima, il giorno della mammografia quando ormai si era definita anche se non ufficialmente la mia malattia. Era stata quella una serata molto triste in cui c'eravamo imposti di far finta di niente, ma ogni boccone era stato amaro e buttato giù a forza. Ora era diverso, anche se la situazione non era cambiata gli animi erano sereni in attesa di una risoluzione e perciò ci sentivamo più propensi a stare tra la gente, a scambiare qualche battuta, a mangiare una buona pizza. E quella volta fu davvero tanto buona. A tarda sera rientrammo e dopo aver spento come al solito le luci di casa subito a letto, con la mente volta indietro al giorno appena trascorso e il cuore speranzoso di bei sogni. Proprio così! Era da tanto che non sognavo più perchè l'ansia aveva fatto scendere un velo scuro sulla mia anima, lasciando solo un piccolo spiraglio attraverso il quale la luce stentava a passare. Quella notte un po' di luce filtrò e a me venne in sogno mia madre. Era in una casa di montagna tipo baita, tutta di legno; all'interno più stanze intercomunicanti. Io entravo e in fondo intravedevo una luce molto intensa e poi lei che mi veniva incontro. Avrei voluto abbracciarla ma non ci riuscivo; le dicevo di essere felice perchè ora saremmo state sempre insieme e lei ancora,  scuotendo la testa sosteneva che quel posto non era per me e che dovevo tornare a casa. Ci rimanevo male, come se mi avesse rifiutato, ma poi mi convincevo e prendevo una strada tutta in discesa che andava giù,  e senza ostacoli portava alla mia casa.

lunedì 25 ottobre 2010

Eccoci di ritorno a quel sabato pomeriggio del mese di marzo. Tornai in ospedale in veste di  visitatrice; andavo da mamma Ripalta, glielo avevo promesso e poi ne avevo tanto piacere. Quando mi vide sulla soglia esclamò: " Ecc' a Maria! T'aspettavo, sapevo che venivi. Quanto sei bella coi capelli fatti." " Eh, sì! Ancora per poco però. Con la chemio, addio capelli" " Eh, vabbè! Tu sempre ai capelli pensi. Tanto poi ricrescono, e pure di più. Mò, siediti qua e parliamo un poco. " Dalla borsa sfilai un pacchettino: un piccolo dono per lei. Lo aprì con l'ansia gioiosa di una bimba. " Perchè ti sei disturbata? Non c'era certo di bisogno." Ma fu contenta quando si ritrovò tra le mani una sveglia " con la luce ", come la chiamava lei, s'era innamorata della mia che avevo sul comodino e ne decantava continuamente la bellezza e l'utilità. Poi mi prese sottobraccio per passeggiare nel corridoio. " Lo sai, qua non si capisce da dove viene la mia anemia. La dottoressa D. dice che forse è un fatto di sangue: ho paura di avere la leucemia. Comunque mi vogliono fare anche la gastroscopia; e che esame tremendo è anche quello!" " Dai, vedrai che andrà tutto bene! Devi andare al matrimonio di Silvia." "E vabbè, a me non importa morire perchè c'ho l'età,  però mi dispiace dei figli." Dicendo così gli occhi le si riempirono di lacrime. Ed era proprio così: quando si sta tanto male non è a se stessi che si pensa, ma alle persone che sono vicine, si ha paura di farle soffrire, di essere loro di peso e prende un profondo senso di colpa. Come animali feriti ci si vorrebbe nascondere perchè tutto si compia senza che altri ne siano a conoscenza, tutto tranquillamente, tutto naturalmente.

domenica 24 ottobre 2010

Mi si perdonerà a tratti questo mio saltare di palo in frasca perchè ci sono sensazioni o meglio emozioni che non si possono trattenere per riprodurle col racconto in tempi diversi. Vanno espresse d'impeto sul momento e chi le ascolta o ancor più le legge ne comprende l'autenticità dalla loro immediatezza.
Stamattina mi è capitata una cosa molto banale, ho preso una storta al piede sinistro. Un mucchietto di foglie secche ( pensare che fino all'altro giorno, guardandole,  le reputavo un elemento poetico!! ) nascondeva una piccola trappola nell'asfalto ed io scendendo dal marciapiede ci sono finita con il piede messo di lato. L'essere stata presa alla sprovvista e il dolore molto forte mi hanno tolto il respiro per qualche secondo, poi ho cominciato a vedere anelli bianchi e grigi concentrici sempre più numerosi e mi son sentita venir meno. Ho resistito con tutta la forza possibile e ci sono riuscita perchè, si sa , ora sono ben allenata, però mi sono vista in  piena vulnerabilità con il braccio destro inabilitato e  il piede sinistro che non riusciva a mettere un passo,e poi   con la parrucca in testa mi sono sentita patetica, quasi qualcuno mi dicesse a bruciapelo: " Vuoi fare la forte ma forte non sei, ti appoggi a un palo per non cadere, ti mascheri perchè non hai il coraggio di farti vedere " Ho rimandato indietro le lacrime, anche in questo mi sono allenata, per dignità e poi ho provato un forte senso di solitudine. " Signora... signora,  vi sentite bene? Vi siete fatta male? Ero in macchina e ho visto quello che vi è successo. Volete che vi accompagni? " Una signora, che in quel momento per me  rappresentava un angelo mandato dal cielo, mi ha soccorso, ha visto il mio malessere e mi ha offerto un sorso di latte per farmi riprendere. L'ho ringraziata con una carezza sulla guancia; mi ha sorriso sorpresa, ma ancor più sorpresa ero rimasta io perchè persone così, sempre più rare,quando hai la fortuna di trovarle sul tuo cammino ti rimettono in pace col mondo e ti convincono che in fondo non sei mai del tutto solo.

sabato 23 ottobre 2010

L'odore del sedano,  nel brodo che bolliva piano sul fornello aveva invaso la cucina, mentre sistemavo la mia roba nei cassetti. Fuori la giornata era piuttosto grigia ma dentro avevo il sole; nonostante tutto mi sentivo quasi una privilegiata perchè non avrei mai pensato di aver dovuto affrontare e vivere una cosa del genere con tanta pacatezza, continuando a...fare le cose di tutti i giorni. E d'altra parte quel fare le cose di tutti i giorni  costituiva un'altra delle tante armi per combattere e vincere il tumore. La mattinata trascorse così, qualche faccenda, tante telefonate che mi diedero una spinta in più e la giocosità della mia cagnolina che mi saltellava intorno. Che altro potevo volere? Vivevo una vita normale in una situazione palesemente non normale, tutto sommato andava bene così. A tavola, tutti e quattro insieme, come un sabato qualunque pregustando la gioia del giorno dopo, sembrava che quei dieci giorni non ci fossero proprio stati, anche se di tanto in tanto si ritornava sull'argomento ma in modo più disteso e con uno stato di attesa e di speranza.
Nel pomeriggio mi preparai per andare da mamma Ripalta; presi l'auto e mi avviai. Durante il tragitto gli occhi andavano alle vetrine dei negozi e dei bar, ai tabelloni pubblicitari: tra un po' sarebbe stata Pasqua! Erano passati tre mesi ed io non me n'ero accorta; il tempo s'era come fermato, rimasto immobile, cristallizzato e in questa fragilità lo mantenevo ibernato per ridargli calore un giorno, chissà quando.

venerdì 22 ottobre 2010


L'indomani era sabato. Come al solito la sveglia che suona alle sette, mio marito che entra nel bagno mentre io ancora mi sveglio nel mio letto e apro gli occhi al nuovo giorno. Una sensazione di benessere come una carezza per tutto il corpo mi prese, mi stiracchiai, avrei voluto alzarmi;  no, non era il caso. Ora era il momento di pensare a me stessa, di cominciare ad amarmi un po' di più e di estraniarmi da tutte quelle inutili preoccupazioni che mi avevano sempre assillato. Certo avevo da fare, e l'avrei fatto ugualmente ma dopo e con la calma di chi si rende conto di aver recuperato un bene prezioso. La mia casa ancora immersa nel silenzio di primo mattino e avvolta nella penombra mi appariva come un rifugio sicuro ed io, sentendomi protetta, non volevo muovermi per non sciupare quell'incanto.  Restai a letto per poco ancora, poi mi alzai.  Avevo ripreso l'abitudine di pregare al mattino; era il mio modo di dialogare con Dio, ora di ringraziarlo per quest'altra occasione donatami e di pregarlo di starmi sempre accanto. La preghiera, ecco era un'altra arma per combattere e mi avrebbe aiutato tantissimo nei momenti più difficili.
Dopo aver sistemato qualcosa e messo ordine, dovevo decidere che cosa preparare per il pranzo; per carità niente di complicato! Anche l'era dei manicaretti volgeva al termine ed ora trovavano posto solo cibi semplici e soprattutto di veloce esecuzione. Pensai di preparare un buon brodo vegetale; me n'era rimasta la voglia dopo  aver mangiato quello dell'ospedale che a dire il vero di " brodo " aveva solo il nome. Sì, avrei fatto quello e stavolta avrei aggiunto anche l'ingrediente segreto suggeritomi da mamma Ripalta: la corteccia di caciocavallo che avrebbe dato al brodo la giusta quantità di grasso e tanto sapore in più.


Mamma Ripalta, già, il pensiero andava a lei: chissà come si sentiva quella mattina, se la sua anemia migliorava, soprattutto se erano riusciti a darle una spiegazione. Quel pomeriggio stesso sarei andata a trovarla, perchè mi mancava e volevo farle sentire tutto il mio affetto.

giovedì 21 ottobre 2010

Quella sera ci ritrovammo tutti a festeggiare da mio padre; era la festa del papà, per noi doppia festa perchè aveva superato anche un brutto momento, e poi c'ero io, sempre con il mio problema, ma in una prospettiva diversa e con la speranza della risoluzione. Una bellissima serata di festa di cui la serenità fu incontrastata animatrice; trovammo motivi per ridere di gusto, ricordi da rivivere con un velo di malinconia e tanto appetito per poter apprezzare saporite pizzelle e dolcissime zeppole. Nonostante per me non fosse cambiato granchè ero euforica, mi sentivo ridere dentro e questo si vedeva anche al di fuori. Avevo deciso di vivere quei giorni fino all'esito dell'agobiopsia nella maniera più normale possibile, senza pensarci, godendomi ogni istante, come se nulla fosse mai successo. Tornata a casa a tarda sera, dopo quattro coccole a Beauty, mi preparai a trascorrere quella prima notte fuori dall'ospedale. Ancora un giro per le stanze, pareti amiche che non mi avevano dimenticato, uno sguardo alla mia cucina, a tutte le mie cose:  questa volta avrei spento io la luce.
Indossai il pigiama e m'infilai a letto; un segno di croce per ringraziare il buon Dio e il pensiero indietro a rivivere le emozioni di quel giorno. Avvolta nel tepore che sentivo come calore della mia famiglia, me ne stavo sdraiata sul fianco sinistro a guardare il volto di mio marito, dell'uomo che amavo da tempo immemorabile, che mi era vicino, a suo modo, ma vicino, e che si trovava a dover condividere con me un momento difficile. La sua carezza a luce spenta, il profumo delle mie lenzuola, la gioia che l'indomani sarebbe stato un giorno diverso tutto da costruire mi fecero scivolare piano piano nel sonno.

mercoledì 20 ottobre 2010

A casa non restai a lungo quel pomeriggio; mi venne voglia di tagliare i capelli e cambiare colore, l'ultimo cambio di look prima della chemioterapia. Andai dalle mie parrucchiere, Antonietta e Teresa, e grande fu la loro gioia nel vedermi di nuovo soprattutto serena e nel sentirmi parlare con distensione della malattia. Lì da loro incontrai l'unica persona che avrei voluto incontrare quel giorno in quel luogo, la mia amica Marigilda; Marigilda sa sorridere, Marigilda sa ascoltare, Marigilda ti sa parlare ed io avevo piacere di vederla proprio allora quando al massimo della mia vulnerabilità avevo bisogno solo di atteggiamenti positivi. L'abbracciai a lungo quando andò via, facendole intendere quanto desiderassi ancor di più la vicinanza di tutte le persone che mi volevano bene. Rispose a quell'abbraccio e mi sentii sicura. Così cambiai colore ai capelli e mi feci più bionda, li tagliai molto corti e il mio aspetto migliorò e gli occhi spiccavano non più sbarrati per la paura ma luminosi per serenità e determinazione. Ad Antonietta e Teresa parlai  della parrucca; loro dovevano aiutarmi, conoscevano i miei gusti, le mie esigenze e poi non sarei mai andata in un negozio qualsiasi perchè reputavo quella cosa troppo intima, troppo " mia " e anche assai dolorosa per poterla banalizzare come un acquisto qualsiasi. Scelsi il modello su un catalogo, ne stabilimmo il colore. Prima che fosse stato necessario avrei avuto la parrucca.
Senza accorgermene, uscita da poche ore dall'ospedale andavo preparando la mia strategia d'attacco al male: la solidarietà della gente che mi conosceva, le armi per combattere ( la parrucca ne era una ),il desiderio costante di uscire dal guscio e condividere tutto ciò che provavo senza reticenze nè riserve.

martedì 19 ottobre 2010

E così tornai a casa. In una condizione di incertezza, come sospesa su una nuvola, tornai a casa. Ero contenta mentre salivo le scale, comunque avevo superato una fase, mi preparavo ad affrontarne un' altra forse più difficile, ma non conoscendola era meglio anche non considerarla.  Ecco continuavo a... vivere. a respirare, a girare gli occhi intorno, a vedere che tutto era piacevolmente immutato, certezze queste che mi caricavano di altra forza. Sarei andata avanti perchè fosse ancora così. Aprimmo la porta e Beauty ci venne incontro scodinzolando; nel vedermi si fermò, ebbe un attimo di esitazione: piccola, non mi riconosceva quasi più! Dieci giorni erano bastati perchè la mia immagine sbiadisse nella memoria di quella piccola creatura, ma in  dieci secondi  la sua sensibilità, supportata dal suono della mia voce, ne recuperò il ricordo e cominciò a saltare, a guaire di gioia, a girarmi intorno fino a confondermi la vista. Anche per la piccola Beauty dovevo continuare ad...esistere. Mi muovevo in casa come un automa; entravo nelle stanze dove c'era tutto il mio mondo, le piante che avevano ripreso a metter foglie, negli acquari i pesci intenti nel nuotare silenziosi, i miei libri, gli uccellini di Capodimonte sul mobile basso in soggiorno. Ciò che vedevo mi appariva più bello e colorato, l'odore della mia casa, accantonato per quei giorni in un angolo dal mio cervello, aveva un'intensità diversa, persino i panni stesi al balcone avevano l'allegria di un gran pavese su un battello in festa. All'improvviso sentii una pressione alle tempie: tutto quel noto con un gusto nuovo di novità mi aveva procurato una forte emozione, la sensazione della felicità che nasce dalle piccole cose.
Durante la visita medica quel mattino il medico di turno entrò nella mia stanza e sfilò dalla spalliera del letto i fogli della cartella infermieristica. " Beh, oggi tornate a casa. " Mi drizzai sulla sedia. " Davvero? " dissi, " E per l'esito dell'agobiopsia? " " E' inutile stare qui per conoscerlo. Quando ci perverrà sarete chiamata, non vi preoccupate. Per ora, a casa. " Dopo dieci giorni lunghi un secolo ma volati via in un soffio, tornavo a casa. Ero felice anche se nulla era ancora risolto; mi riportavo indietro il mio " bozzo " ai miei occhi divenuto meno cattivo che manteneva sempre il suo aspetto minaccioso, me lo riportavo, bagaglio doloroso che volentieri avrei perso senza rimpianto. Mentre preparavo il borsone, mamma Ripalta nel suo letto più pallida che mai, si rammaricava per il fatto che sarei andata via, perchè sarebbe rimasta da sola e anche senza televisione. Su quest'ultimo punto la rassicurai: poteva tenerla per tutto il tempo del ricovero, per il resto non doveva temere perchè sarei andata a trovarla, non mi sarei dimenticata di lei, così dolce, così simile alla mia mamma. Fece gli occhi lucidi e stavo per commuovermi anch'io quando dal fondo del corridoio si sentì " La sacca non c'è più, la sacca non c'è più. " Era la voce di mio padre esultante perchè aveva tolto i drenaggi, i punti ed avevano messo  in dimissione anche lui. Saremmo usciti insieme quel giorno; le nostre storie iniziate contemporaneamente prendevano due strade diverse pur continuando ad essere parallele. Tornavo alla mia casa!  Valeria, al telefono esclamò. " Meno male mà, non ne potevo più! " Mio marito retoricamente chiese: " Che cosa vuoi che prenda per stasera: dobbiamo festeggiare! " Francesco, figlio dai lunghi silenzi, venne in ospedale a prendermi e trovai  i suoi grandi occhi scuri più ridenti e luminosi. Di lì a poco la mia famiglia si sarebbe ricomposta in un'apparente normalità che in realtà era tutta da ricostruire.

lunedì 18 ottobre 2010

Come in un flashback vado a ritroso e torno al marzo di quest'anno, al 19 marzo per la precisione, giorno di San Giuseppe. Una mattina radiosa, un profumo inebriante che sa di primavera, una tranquillità per chi come me sapeva di aver fatto tutto ciò che era da fare e che aspettava pur  con ansia trepidante una risposta. L'esito dell'agobiopsia sarebbe arrivato la settimana seguente e di seguito avrei cominciato la chemioterapia. Dopo tanto pensare e piangere, piano piano mi abituavo all'idea e mi convincevo di volerla vivere al meglio: sì,mi ripetevo,  ci sarei riuscita. Il pensiero che mi tormentava, è inutile dirlo, era che avrei perso i capelli: mi immaginavo di svegliarmi una mattina completamente calva, quasi potessero cadere tutti in una volta sola, poi mi toccavo la testa e la sentivo liscia sotto la mano, poi l'accarezzavo e la trovavo fredda. Come avrei potuto sopportare tutto questo? Dovevo cercare una strategia veloce e farla subito mia, per sopravvivere non solo, perchè sarebbe stata una forzatura e non sarebbe durata a lungo, ma per trovare addirittura il  lato piacevole, un aspetto giocoso di quella condizione che a priori pareva inaccettabile. Fu così che pensai alla parrucca. Ci pensai subito e subito avrei voluto averla. Certo, era questa la strategia da seguire: cominciare ad " accettare " uno stato inevitabile, " apprezzarlo " perchè comunque era la conseguenza di un'azione contro la malattia , " renderlo meno doloroso " ironizzando e giocando a ricoprire un ruolo diverso dal mio, scoprire,  nonostante tutto,  di piacermi lo stesso o forse anche di più.

domenica 17 ottobre 2010

Qualche tempo prima di trasferirci nel " nostro " nuovo reparto, durante una delle frequenti chiacchierate, il dottor Antonio disse che avrebbe voluto esporre un cartello con un testo, che io avrei chiamato più propriamente meditazione,ma che poi, per rispetto della sensibilità altrui, non lo aveva fatto più. Riteneva, infatti che non tutti sarebbero stati in grado di capirne il bellissimo e profondo signficato in quanto tra l'altro si parlava di morte. Me lo aveva fatto leggere ed io lo avevo trovato stupendo. Riporto questo testo per condividerne l'essenza e le conseguenti emozioni: " ...vi sono qualità al di là della pura competenza medica,delle quali questi pazienti hanno bisogno e che cercano nei loro medici. Dal medico essi vogliono essere rassicurati, considerati e non solo esaminati. Vogliono essere ascoltati. Vogliono percepire che vi è una grande differenza, invero, per il medico,se essi vivono o muoiono. Vogliono sentire di essere nei pensieri del loro medico " ( Cusin 1982 )
Il tumore non è una malattia come le altre, altrettanto gravi, e coloro che ne vengono colpiti sono di conseguenza malati diversi. Lo sconcerto che prende all'inizio, quando se ne viene a conoscenza, l'evoluzione diversa per ogni caso, la durezza delle terapie, il forte senso di precarietà che accompagna per il resto della vita, fanno sì che si stabilisca con il proprio medico un rapporto che è più di fiducia, è una sorta di condivisione di ogni pensiero, timore, e quando c'è anche di gioia. Non si vuole essere dimenticati, comunque vada a finire la cosa, e d'altra parte anche il medico stesso resta nei loro pensieri come un amico, una spalla su cui piangere, una mano da stringere per prendere forza e dimostrare gratitudine. Sono emozioni molto forti, difficili da spiegare che non si possono condividere in differita ma vanno comunicate in tempo reale perchè non perdano vigore. Ed io ho voluto esternare tutto questo in un momento che avrebbe dovuto essere di pura gioia e in effetti lo era, ma che comunque restava velato da un senso di smarrimento e disorientamento simile a quello che prende a un bambino che muove i primi passi sorretto, e all'improvviso si vede costretto a camminare da solo.

venerdì 15 ottobre 2010

Stasera sono stanca, molto stanca. Mi sento come se stessi partecipando all' Olimpiade della mia vita, un'enorme competizione, di grande portata, con tante gare da affrontare e da vincere a tutti i costi. Oggi ho vinto la prima veramente importante; dopo quattro cicli di rossa e dodici infusioni di Taxani, è finita! La risposta è stata più che positiva, la TAC non ha rilevato presenza di metastasi ed è finita! Eppure è strano: voglio piangere e piango davvero. Finisci una gara, la vinci anche e piangi: piangi di gioia, di stanchezza, piangi perché ricordi l'impegno e la fatica che c'hai messo per raggiungere quel traguardo, piangi perché sai che non puoi fermarti, devi andare avanti senza illuderti, senza adagiarti perché la forza va allenata,altrimenti perde di energia ed un'altra volta potrebbe non avere la stessa efficacia. La penso così: forse è una specie di delirio il mio, ma di delirio in delirio percorro questo cammino, mi pongo delle sfide e le vinco. Per ora è 1 a 0 per me, però so che devo stare all'erta, cauta, guardinga, ma serena. Ed ecco che ritorna la " serenità " a farla da padrona, la mia " cara Signora " che voglio sempre accanto a me, che "il mio dottore"  ( non voglio più usare le iniziali puntate quando parlo di lui, sarebbe troppo freddo e distaccato farlo e non lo merita ) mi ha sempre raccomandato come arma per poter guarire, offrendomi il suo appoggio fin dal primo giorno. Allora avevo tanta paura, però di una cosa ero sicura, VOLEVO VIVERE, e l'avrei gridato con tutte le mie forze, mi bastò dirlo a lui quasi sommessamente ma con determinazione e mi rispose " Ti aiuterò " e così è stato. Oggi quando mi ha detto che questa fase è conclusa, gli ho chiesto: " Ed ora? " la sua risposta è stata " Mi devi solo voler bene ", alludendo ad un mutuo scambio di dono e gratitudine, quest'ultima  davvero grande da parte mia verso chi con tanto scrupolo e umanità mi ha curato fino ad ora e continuerà a... farlo.

giovedì 14 ottobre 2010

Il pranzo alla mensa fu molto buono, devo dire, niente a che vedere con quelli che avevo consumato su in reparto ; non me ne vogliano gli " chef " ospedalieri, ma nonostante gli sforzi dei ragazzi che al mattino venivano a proporre il menù per il giorno dopo, le pietanze non rispondevano proprio alle aspettative e si affidavano alla fantasia individuale per l'interpretazione e il gusto. Ma si sa, non è bene far i difficili e quindi era a posto anche così, considerando il luogo, la condizione e la precarietà di ogni cosa e poi c'era il piacere di condividere quei momenti con le mie compagne e ciò mi dava veramente tanta serenità. Mentre scrivo mi accorgo di ricorrere spesso alla parola " serenità ": è vero, non ne posso fare a meno, perchè è stata la cosa che ho cercato di tenermi stretta fin dall'inizio, quando cominciai a realizzare che non doveva essere niente di passeggero quel " bozzo " comparso all'improvviso proprio la mattina dell'antivigilia di Natale. Sulla serenità aveva insistito anche il dottor A. C. nel nostro primo incontro per la riuscita della terapia e la possibilità di guarigione e perciò me l'ero stampata dentro , nella mente e nel cuore, e quando la sentivo vacillare mi guardavo allo specchio e sorridevo: una piccola infusione di felicità.
Durante la permanenza in ospedale avevo instaurato anche un bellissimo rapporto con le figlie di mamma Ripalta, Anna, Milena e Caterina, molto diverse tra loro ma affini per sensibilità; mi trovai subito bene e vederle tutti i giorni divenne per me un'abitudine piacevole e familiare. E' strano che in un luogo come quello il tempo appaia lento e insieme veloce, e tutto ciò che avviene sembra antico e recente; così le conoscenze diventano a pelle amicizie e gli accadimenti danno l'immediata sensazione di essere stati già vissuti. In un breve spazio di tempo riesci a vivere quasi un arco di vita, breve ma fortemente intenso di emozioni.
Non era ancora mezzogiorno quando mi vennero a chiamare per l'agobiopsia. Rosalba,questo il nome dell'assistente del dottor F. C. mi accompagnò nel suo studio; tutto era pronto per un esame apparentemente, almeno per me, semplice e veloce. Su un tavolo a capo del lettino erano posti gli aghi, una specie di siringa, le provette e il contenitore delle garze, accanto c'era l'apparecchio per l'ecografia. Mi sdraiai a seno nudo e sul fianco destro per esaminare la mammella sinistra; con la guida della sonda il dottore individuò tre noduli, ne segnò i punti precisi sulla pelle col pennarello e poi incominciò l'esame. Un improvviso getto freddo mi fece rabbrividire, colpa dell'anestetico locale che avrebbe dovuto ridurre al minimo il disagio e invece lo era già di per se, poi caricando successivamente la siringa con gli aghi me li " sparò " nel vero senso della parola, due per ciascun nodulo. Al primo colpo sobbalzai. " Vi siete spaventata? " mi chiese il dottore, " Un po' " risposi, ma in realtà mi ero spaventata proprio e avevo sentito anche un bel po' di dolore. Rosalba se ne era accorta e per questo aveva cominciato ad accarezzarmi i capelli per confortarmi e farmi coraggio. Man mano che effettuava i prelievi il dottor F. C. riempiva le provette che sarebbero andate in laboratorio  per la biopsia; finito il seno sinistro passò poi al destro, anche se lì non c'era da sapere niente che non fosse già noto. Tutto l' esame durò un'ora: avevo i fianchi indolenziti e le mammelle che sembravano due puntaspilli. Ma era un altro passo in avanti per la risoluzione. Tornai in camera e mi appoggiai sul letto: quanto ero stanca! E quella strana sensazione di essere un campione da laboratorio e basta, come mi dava fastidio! Poi mi levai, quel giorno sarei scesa giù a mensa a pranzare con " il compagno della mia vita " e sarebbe stato come essere a casa a condividere un pezzo della nostra giornata.

mercoledì 13 ottobre 2010

Buongiorno! Dissi a me stessa aprendo gli occhi quella mattina. Mi ritrovavo un insolito buonumore;  da nove giorni in ospedale, qualcosa era cambiato e altro, sentivo, stava per cambiare. Tra alti e bassi era mutato quasi in maniera definitiva il mio atteggiamento nei confronti della malattia, e in quei giorni si stava delineando pure la strategia terapeutica per attaccarla e sconfiggerla. La sera precedente era passato il dottor F. C. e mi aveva comunicato che il giorno dopo avrei fatto l'agobiopsia, ne sarebbe stato lui stesso operatore, per non aspettare i lunghi tempi d'attesa del mammotome ed accellerare la diagnosi completa e l'inizio della terapia. Forse era proprio tutto ciò alla base del mio buonumore e poi mancavano tre giorni all'inizio della primavera e c'era il sole. Ogni cosa mi pareva più bella ed ogni stato più piacevole: quella mattina il tè era più dolce, le fette biscottate più croccanti e la marmellata di fragole??! Hmmm, com'era buona! Persino stare ad osservare Sonia e Biagia che rifacevano il letto metteva tranquillità. " Come è bello vedervi stamattina! " " Oh, grazie! Non ce lo dice mai nessuno." Risposero all'unisono, ridendo forse pensando che ero un po' matta, ma io ero solo contenta e avevo bisogno di condividere quel mio stato d'animo, perchè esternare ciò che si prova e soprattutto parlarne fa sempre bene, si smontano all'interno della propria coscienza le ansie più pressanti, si potenzia la speranza, si trasmette la gioia. Da noi era arrivata Daniela ed io non ero la più giovane in quella stanza: meglio così perchè mi mancava il ruolo di mamma. I miei figli! Mi mancavano tanto anche loro; in ospedale li vedevo ogni giorno ma non era la stessa cosa che a casa, nella quotidianità, coi battibecchi, nel disordine tra pantaloni sulla sedia, giacche sul divano, tracce di kajal sulla lavatrice, e come colonna sonora musica assordante ed effetti sonori della Playstation. Mi mancava tutto ciò che prima mi aveva dato sempre fastidio, ora il solo pensiero di quello che avevo lasciato mi dava serenità: costituiva una certezza che volevo recuperare.
Volevo ancorarmi alla vita ma,  come una piccola imbarcazione in prossimità del porto cerca di gettare l'ancora e viene ricacciata indietro dall'arrivo improvviso di un'onda diversa, più grossa, così io ripiombavo nel dubbio e nella tensione pensando continuamente a quel 99% in cui non era per niente sicuro potessi io rientrare. E poi, mi chiedevo,  che cosa accade per l' 1% restante? Sapevo che a volte la malattia tende a cronicizzarsi ma che si può imparare a convivere con essa tra alti e bassi, e alla fine, se proprio non doveva andar tutto bene, speravo almeno in questo. E' naturale che l'altalena delle situazioni incideva notevolmente sull' umore e sulla mia determinazione a combattere, e passavo dal sorriso al pianto, dall'allegro discorrere al silenzio più cupo. E in questo stato mi trovò quel pomeriggio Anna P. Anna è una volontaria dell' AVO, forse quella che meglio tiene fede al suo impegno perchè ha una difficile esperienza alle spalle. Dodici anni fa anche lei aveva vissuto il dramma del tumore al seno e della mastectomia e a 39 anni aveva detto a se stessa che ce l'avrebbe fatta a tutti i costi: nessuno mai l'aveva vista piangere. Ora, superata completamente la malattia,  a distanza di anni sfoggiava un decolettes da fare invidia.  Era passata prima dalla stanza di mio padre che le aveva raccontato di me e l'aveva pregata di portarmi la sua esperienza come testimonianza positiva affinchè io trovassi forza crescente per lottare e vincere. Il racconto di Anna dalla sua viva voce, la gioia che l'accompagnava costituirono la bonaccia che mi fece gettare l'ancora. E di nuovo mi rasserenai, mi sentii tranquilla, a tratti privilegiata; di continuo ricevevo doni che rivoluzionavano la mia anima e non solo. Pregavo Dio di essermi vicino e sempre più forte sentivo la sua presenza accanto a me.

martedì 12 ottobre 2010

Evidentemente fu palese nel mio sguardo un certo sgomento perchè il dottore si riprese: " Quanto le serve? " " Di che cosa? " " Quanti anni le servono? " " Beh, per tutto quello che non ho fatto e per ciò che mi aspetto dalla vita vorrei vivere ancora una ventina d'anni, poi non so se chiedo troppo. " " Venti anni? Facciamo trenta e non ne parliamo più. Perchè altrimenti dovrebbe rivolgersi direttamente..." Dicendo così indicò il cielo e sorrise di nuovo; intendeva sdrammatizzare la naturale tensione del momento e scherzava, tornava ad esser serio e gli occhi , incupiti perdevano la loro luce. " Perderò i capelli? " Glielo chiesi quasi a bruciapelo. Mi rispose in modo secco, questa volta guardandomi negli occhi, lui, oncologo che tante volte si era trovato a dover affrontare situazioni molto più difficili. " Sì, sarei falso se dicessi il contrario o raccontassi una mezza verità, però posso assicurare che ricresceranno, saranno molto più belli e tutto avverrà in fretta. " " Quando incominceremo? " Dipendesse da me inizierei già da domani, ma ho bisogno dell'esito dell'agobiopsia, altrimenti ho le mani legate. "L'agobiopsia??! Ma io non l'avevo fatta! E poi che cos'era? Non si finiva mai! " Quando avrà l'esito potrà venire da me in qualsiasi momento, senza appuntamento e inizieremo subito,perchè,questo glielo voglio dire da noi non sarà mai trattata come un numero ma da persona con umanità e rispetto." Così si concluse il colloquio; era stato chiaro, sereno, senza concessioni per la compassione, un discorso forte, teso ad informarmi perchè non perdessi la fiducia e mi ancorassi ancor più saldamente alla vita.

lunedì 11 ottobre 2010

Al mattino aprivo gli occhi e me ne beavo, godendo della bellezza stessa di poterli aprire. Guardavo la sveglia sul comodino, il piccolo elfo delle coccole, la vestaglia sulla spalliera del letto e mi appagava; poi li richiudevo per un attimo e quel po' di buio oscurava le piacevoli sensazioni e lasciava riemergere l'ansia. Mi levavo di scatto, di scatto davo inizio alla mia giornata  per non pensare; avrei voluto sempre accanto qualcuno che mi dicesse che era tutto un brutto sogno o che ciò che  stava accadendo sarebbe passato presto, avrei voluto essere rincuorata, avrei voluto un sostegno. Ma a cosa sarebbe servito? Se cerchi sempre un appoggio non impari mai a stare in piedi. Questo mi ripetevo in un turbinio di pensieri quando incontrai per la prima volta l'oncologo, il dottor A. C. Si affacciò alla porta della mia stanza con un sorriso pronunciando il mio cognome, poi mi fece strada verso la medicheria dove ci accomodammo ed iniziò il nostro colloquio. " Stia tranquilla, signora, sono qui per aiutarla; penso che le abbiano spiegato la sua situazione e la necessità imposta dalle dimensioni del suo tumore di sottoporla ad alcuni cicli di terapia neoadiuvante proprio per ridurle, poter operare in campo sterile e constatarne la risposta. E' importante che lei sia consapevole e per questo è mio dovere informarla con coscienza, con estrema chiarezza e sincerità, senza tralasciare nulla. Vedrà, riuscirà ad essere serena e in questo modo potrà guarire. " " Ma davvero posso guarire? Posso farcela? " "Vede, è un impegno reciproco; lei deve fare la sua parte, noi ci impegneremo nella nostra e al 99% ce la farà. Ma solo il buon Dio sa quando il cerchio si chiude e  allora nessuno può e nulla serve. " Pur nella piena consapevolezza della realtà, certo non erano le parole che avrei voluto sentire in quel momento; tutti dobbiamo morire,si sa, ma io ero nella condizione psicologica di sentire la precarietà umana più forte rispetto ad altri, per questo fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso.

domenica 10 ottobre 2010

Oggi, a distanza di mesi ricordo quando mi dissero della chemioterapia cui avrei dovuto sottopormi ancor prima dell'intervento. Tutti quelli che me ne parlarono, intendo i medici del reparto, lo fecero senza guardarmi negli occhi e velocemente, come fosse la cosa più naturale e semplice del mondo oppure perchè temevano di dover rispondere a domande per quanto ovvie pur sempre difficili. Ma io non avevo domande perchè le risposte le sapevo già: la chemioterapia mi faceva paura, anzi terrore e basta! Non c'era altro da aggiungere oltre al fatto che la vedevo come una violenza fisica fine a se stessa, una specie di accanimento contro qualcuno già abbastanza provato. Ero convinta di questo e nessuno mi avrebbe fatto cambiare idea mai e poi mai.
Le opinioni che la mente si costruisce non nascono sempre in maniera autonoma da un punto di vista oggettivo, spesso derivano dal pensar comune e da preconcetti ostinati e portano la mente stessa,così arroccata,  a perdere di lucidità. Per me era questo, in seguito mi sarei ricreduta, ma certo non per merito mio. E' chiaro che quelli che sono gli effetti collaterali di una terapia così pesante restano tali, ma quello vero e proprio, ciò che ti fa accettare la stessa malattia e addirittura superare, è di gran lunga superiore alla paura, alla fatica di affrontarla. Viene poi potenziato dall'atteggiamento, quanto più questo è positivo tanto più rapida è la risposta alla terapia. Dette così sembrano cose scontate, e forse lo sono per chi  le sente ma non certo per chi le vive sulla sua pelle e deve fare un gran lavoro su se stesso per metabolizzarle. Si ha bisogno di aiuto, di grande aiuto che può venire solo da parte di persone preparate, con una grande carica di umanità, forte sensibilità, e che sanno fare della propria forza , la motivazione di chi hanno in cura e aiutano. A quel punto del mio percorso avevo anch'io bisogno di tanto aiuto, e di lì a poco lo avrei trovato e sarebbe stata un'altra svolta nella mia storia.

sabato 9 ottobre 2010

Aveva ancora un bel viso Iole, un incarnato chiaro, solo qualche ruga; da giovane doveva esser stata proprio una bella donna. Con la sua famiglia aveva gestito un cappellificio, specializzato in modelli per donna e lei spesso, indossandoli aveva fatto da modella. Andava fiera di ciò insieme con il fatto che aveva tenuto a mantenere la sua indipendenza non sposandosi. Ora, è vero, era sola ma tutto sommato non aveva rimpianti: moderna, orgogliosa, e data la situazione in cui si trovava anche molto coraggiosa. Iole veniva nella nostra stanza tutti i pomeriggi: " Si può? " esordiva bussando alla porta, entrava, si sedeva e guardava la telenovela del momento. A mamma Ripalta questo non andava tanto a genio perchè alla stessa ora lei voleva vedere " ...a Caterina ", ossia la trasmissione condotta dalla presentatrice che portava quel nome, però per dovere di ospitalità cedeva e...protestava dopo. A modo nostro, in questo nostro piccolo mondo eravamo in armonia, non c'era chiusura di sorta ed era bello constatare come bastasse solo un piccolo approccio per dare inizio a un  un legame più profondo.
A me invece non bastava la pazienza; dopo tre giorni di esami, lastre e controlli, e altri cinque trascorsi in vacanza a pensione completa,  non avevo ancora capito quale sarebbe stata la mia sorte. Finalmente, ero sveglia da poco, quando con il buongiorno mi arrivò la notizia che avrei dovuto sottopormi a un altro esame, il  Mammotom; con questo probabilmente si sarebbe stabilita definitivamente la natura di quel nodulino al seno sinistro che nessuno riusciva a sentire sotto le mani. Ma che strano suono,duro aveva quella parola: mammotom! Faceva paura quasi quanto la malattia. Intanto quella mattina mi aspettava anche la visita dell'oncologo. Quante novità in una sola volta! Bene, le avrei affrontate tutte perchè volevo andare avanti.

venerdì 8 ottobre 2010

In quel clima di indecisione ma fermamente convinta della mia voglia di vita, non mi restava altro da fare che pregare e sperare, mentre " dalle alte sfere mediche " attendevo decisioni importanti. Ero serena ma anche trepidante: sapevo che la mia vita sarebbe stata diversa, ma volevo viverla nella sua pienezza con le gioie, le preoccupazioni, le incombenze quotidiane, con la serenità che deriva da tutto ciò.
Ogni tanto mi affacciavo alla finestra in fondo al corridoio: l'aria era così profumata! Respiravo profondamente per caricare le mie batterie e poter affrontare nuove giornate cariche di incognite ma anche di novità per il mio nuovo percorso di vita. I medici non sempre concordi sulle decisioni da prendere riguardo la mia situazione, cominciarono a prospettarmi alternative diagnostiche diverse,  per altro tutte molto valide, che avrebbero dovuto portare alla valutazione definitiva del mio tumore e alla strategia terapeutica più giusta. Anche io venivo posta davanti a scelte non proprio facili e quindi dovevo fare la mia parte, pur non sentendomi all'altezza della situazione, ma decisa ad uscire dal mio guscio per crescere.
Un pomeriggio, di ritorno dalla stanza di mio padre, trovai nella mia una " new entry ", Iole, una donna di ottanta anni con il mio stesso identico problema: il suo tumore sembrava il mio allo specchio, perchè era posto al seno sinistro, l'unica differenza era nel capezzolo, a lei completamente introflesso, cosa che a me non era successa e che mi aveva fin dall'inizio illuso. Un tumore non è mai uguale ad un altro e nel suo presentarsi alla ribalta sa mascherarsi in mille modi, purtroppo. Iole diceva che da quando lo aveva scoperto piangeva sempre; era sola, non aveva marito nè figli, solo una cognata che l'aveva convinta a farsi visitare, ma non si sentiva molto motivata e per la sua età e per il senso di vuoto e di solitudine che colmava " divorando " intere telenovelas alla televisione. " Beh, - le dissi- tra qualche giorno non piangerai più, non puoi sempre piangere e le lacrime non vanno sprecate per noi stessi. Piuttosto a noi serve tutta l'energia possibile per poter continuare a... vivere, imparare, conoscere, crescere. E poi vorrai pur vedere come vanno a finire le storie che vedi in televisione, o no? " Gli occhi ancora lucidi si illuminarono di un sorriso che rivelarono un'insolita giovinezza per una donna di quell'età.

giovedì 7 ottobre 2010

Se col pensiero torno indietro,  all'inizio di questa mia avventura e rivedo me in mezzo alla bufera appena scoppiata, quasi stento a riconoscermi. Piegata su me stessa, mi piagnucolavo addosso senza voler trovare una soluzione, mi lamentavo ma non mi decidevo, mi aggrappavo ad altri volendo credere nella mia debolezza. Ebbene, guardando questa " persona " che è altri da me, provo un misto di rabbia e tenerezza; rabbia per una ostinazione che era in realtà chiusura e rifiuto della verità, tenerezza per quel voler rimanere nel proprio nido nella convinzione di poter essere al sicuro solo lì, perchè non si può affrontare ciò che non si conosce e fa paura.
Il primo, vero scossone lo ricevetti quando iniziò l'altalena dell'incertezza sull'opportunità di operarmi subito o meno. Un giorno era data per sicura l'operazione in settimana, il giorno dopo era rimesso tutto in discussione e questo sempre a causa della natura e delle dimensioni del mio tumore, e intanto io mi sentivo incerta, con una bomba ad orologeria dentro di me, sballottolata come una barca in balia delle onde. La mia famiglia non era da meno ed io sentivo su di me anche quella pressione; ad un certo punto capii che il problema era mio e mia doveva essere la responsabilità di ogni cosa, gli altri purtroppo erano coinvolti ma non potevano essere trascinati dalla volontà di rimanere inerte da parte mia. Passai una notte in bianco a pensare, in un turbinio di dubbi e certezze, interrogativi e conclusioni: non mi era mai capitato prima. Poi, al mattino, una bella giornata: un cielo limpido e la primavera vicina. Dopo un lungo e buio inverno anche per me stava tornando il sereno.

mercoledì 6 ottobre 2010

Chiusa la parentesi di forte emozione si continua ad... andare a ritroso per ricordare momenti pur belli vissuti in un contesto non facile d'ansia, e questo fa sì , insieme ad altro, che si possa continuare ad... andare avanti.
Quella domenica mattina dunque, alle nove meno cinque mamma Ripalta, Rosaria, Lucia ed io eravamo nell'ascensore che ci avrebbe portato al piano terra verso la cappella. Eravamo vestite a festa, si fa per dire, con quello che offriva il guardaroba da ospedale, un pigiama pulito sotto la solita vestaglia, ciabatte ben spazzolate e calzini bianchi immacolati. Così " le quattro dell'Ave Maria ", è proprio il caso di dirlo, l'una accanto all'altra si posero a sedere in uno dei banchi della cappella in attesa di ascoltare la Santa Messa. Era quella la IV domenica di Quaresima e tra un po' sarebbe stata Pasqua. Dio, com'era volato il tempo!  e quest'anno vivevo anch'io la mia piccola Quaresima di penitenza e dolore in attesa della Resurrezione. Non c'è vita senza morte ed io morivo a tutto ciò che di me era stato precedentemente per poter vivere in maniera rinnovata dopo che tutto fosse passato. Questo pensavo mentre il sacerdote dava inizio al rito d'ingresso in quella cappellina tutta bianca, nascosta alla luce eppure di una luminosità...! Si era arrivati al Vangelo, alla lettura della parabola del figliuol prodigo e mi sentii profondamente toccata da quelle parole: anche io in un momento di grande vulnerabilità,  ero nella casa del padre,  ai suoi piedi a chiedere pietà, conforto e aiuto ed Egli mi accoglieva a braccia aperte. Mi sentivo così serena! Che grande sensazione di dolcezza e nello stesso tempo di fiducia in Dio che mi era accanto e mi aiutava!
Al termine della Messa risalimmo in reparto e rientrammo in camera, poi tutta la giornata trascorse tra mille dolcezze, le visite dei parenti e degli amici, i " sospiri " (dolcetti tutti bianchi glassati ) di mio marito, la crostata alla crema di mia sorella Franca, le " zeppole " beneventane di Domenico, fidanzato di mia nipote Simona. Non c'è che dire, ne avevamo abbastanza per banchettare a lungo noi e per offrire anche agli altri.
Nel primo pomeriggio di quella bella domenica venne a trovarmi anche Padre Paolino, un frate della mia parrocchia. E' Padre Paolino un religioso particolarmente carismatico che conquista tutti con la semplicità delle sue parole,comprensibili dalla prima all'ultima, e che ha la capacità di infondere calma e serenità nell'animo più turbato. Io avevo chiesto di lui e lui era venuto da me, mi aveva confortato esortandomi a confidare in Dio che tutto può, e poi con il suo costante sorriso quanta tranquillità mi aveva donato!
Una pausa per prendere respiro, un momento di riflessione su ciò che è davvero importante, una "dolce " giornata in cui tutto sembrò meno grigio e più " rosa ".

martedì 5 ottobre 2010

Se oggi fosse stata una giornata come le altre, avrei continuato a... scrivere la pagina precedente, ma non è così, non può sempre andare secondo i nostri desideri e spesso va proprio dalla parte opposta.Per fortuna di solito va meglio, si apprendono notizie che sono in realtà messaggi di speranza e per il resto tutto fila  liscio come l'olio.  Questo, però è stato un giorno dal color grigio perla e dal sapore amaro; anche se c'era il sole, per me il cielo era velato dal tulle ingrigito di un vecchio abito da sposa , e la dolcezza regalatami ieri da una bella giornata vissuta in serenità, aveva lasciato il posto all'amarezza per le tante difficoltà incontrate all'ennesima seduta di chemio.  Si sa,  lo spirito viene fortemente influenzato da ciò che percepisce intorno ed è per questo che ora non potevo parlare di quella dolce e rosea domenica di marzo. I momenti negativi mettono a dormire per un po' la positività con cui si affronta ogni prova cui sottopone la malattia, le piccole e nello stesso tempo grandi certezze acquisite man mano,  vengono riposte in gioco, e a questo punto non si è più sicuri di niente perchè lo spirito vacilla e il corpo è stanco. E' tutto normale, si ripete, ma per chi vive tale esperienza niente più è tanto normale, e meno che mai questa ridda di sentimenti e sensazioni che danno la netta percezione di essere in una dimensione a parte, diversa in cui ogni cosa appare, e mi si perdoni il bisticcio, esageratamente esagerata. Ma poichè sempre dopo il buio arriva la luce, questa giornata finirà e domani con la luce tornerà per me la voglia di trasformare ogni difficoltà in un'occasione in più offertami dal destino.

lunedì 4 ottobre 2010

Quando la mia mente è stanca di tanti pensieri e opinioni, dubbi, domande e risposte, mi piace mandarla " a ricreazione " inventandomi dei giochi, degli scherzi di fantasia, così io mi rilasso e lei riposa per poi ricaricarsi e riprendere la sua " frenetica " attività ( eh, sì a volte penso davvero troppo! ). In una di queste divagazioni ho pensato se per assurdo si potesse definire ogni nostra giornata con un colore o un aggettivo, o magari con entrambi!?! Da una tavolozza degna di un artista, con il sottofondo di un allegretto ma non troppo verrebbe fuori una magnifica sintesi di stati d'animo ed emozioni, la tela su cui è rappresentata la nostra vita.
Allora, vediamo, per quella domenica in ospedale, come colore il rosa va bene, e l'aggettivo adatto " dolce " è perfetto. Non poteva essere che rosa , perchè un giorno di festa ,senza esami, con i medici che ti vengono a far visita per dirti buongiorno, con un cielo azzurro come solo marzo te lo può dare in un anticipo di primavera, con l'affetto e il calore di chi ti sta intorno e ti vuole bene. Per l'aggettivo poi tanti sono i motivi e tanti sono stati gli effetti che quella "dolcezza " ha causato, come benefica terapia  potenziando la mia capacità di reagire che giaceva sopita sotto un inutile vittimismo e un vuoto piangersi addosso.
Già dalla sera precedente con le mie  "amiche " di stanza avevamo deciso di andare a Messa tutte insieme; così ci eravamo accordate per i turni in bagno della mattina, perchè per le nove dovevamo essere giù in cappella. Eravamo straordinariamente euforiche per una cosa così semplice ma per noi tanto bella perchè esulava da quella nostra routine di ansia e,  diciamo pure di sofferenza. Ci eravamo addormentate serene in un clima che molto somigliava a quello che può respirare una scolaresca ad una gita scolastica.

domenica 3 ottobre 2010

Mi pettinavo e mi guardavo allo specchio: mamma mia, in che stato pietoso erano ridotti i miei capelli!  Avevano proprio bisogno di una sistemata; quei giorni in ospedale li avevo trascurati e ora non li riconoscevo più. Benchè da tempo li portassi piuttosto corti, ci tenevo molto ai miei capelli, volevo che fossero sempre in ordine, ben pettinati e con colore e taglio ineccepibili, e ora? Ora avrei dovuto aspettare almeno per la piega se Marisa, la ragazza che lavorava con le mie parrucchiere non avesse dato la sua disponibilità a venire in ospedale; sarebbe stata lì quella domenica mattina sacrificando qualche ora del suo giorno di festa perchè mi era sinceramente affezionata e voleva dimostrarmelo. Cara e dolce ragazza! Ero contenta di questa piccola novità che veniva a rompere  la monotonia delle giornate di ricovero, sarebbe stato come andare in libera uscita col cervello e non pensare per un po' a quello che stavo vivendo. Dei capelli, in verità mi interessava sì e no, sapevo che con la chemioterapia il rischio di perderli era molto elevato ed avevo assunto con essi lo stesso atteggiamento che avevo preso nei confronti del seno: non mi appartenevano più. E mi tornò in mente quello che era successo qualche settimana prima, quando per la prima volta in vita mia comperai un cappello per proteggermi dal freddo. Era particolare, un po' stile anni '30, a calotta con una piccola falda intorno; indossarlo e rabbrividire fu tutt'uno perchè allo specchio, ai miei occhi non apparve la mia immagine con un cappello, bensì una testa senza capelli, me lo ero tolto di colpo mentre sentivo il cuore battere forte. Erano le settimane in cui si insinuava il dubbio, l'ansia cresceva e ogni sensazione anche senza riscontro appariva esagerata. Ora invece attendevo gli eventi che avrebbero dato corpo ai miei timori o alle mie speranze.

sabato 2 ottobre 2010

Un piccolo mondo fatto di quattro realtà diverse in momenti non facili dell'esistenza; questo percepivo intorno a me e sembrava che al di fuori di quella stanza non ci fosse altro. Invece bastava affacciarsi al corridoio e altre situazioni ti venivano incontro e non potevi fare a meno di sentirti parte di un universo, una piccolissima parte. In verità dovrebbe essere sempre così, non focalizzarsi solo su se stessi pensando di essere gli unici perseguitati da una ria sorte, ma guardarsi indietro perchè c'è sempre chi segue,  in difficoltà e a volte anche in solitudine. Prima che la mia malattia si manifestasse, riflettendo sulla mia vita fino ad allora, avvertivo dei brividi, pensavo che tutto potesse finire in un attimo e del resto per quale privilegio a me doveva essere risparmiato un qualcosa di spiacevole? Per questo ,anche se angosciata, non ho mai detto: perchè proprio a me? In seguito, con una ritrovata serenità sarei arrivata a dire persino: meglio a me ! Perchè scoprivo di avere una forza insperata e una grande volontà, due doni che tutti hanno in potenza ma non tutti riescono a mettere in atto.
In ospedale avevo tanto tempo per pensare a ciò che era stato e che poteva essere per me; avevo speso i tre quarti della vita in modo non giusto, l'avevo sprecato, ora  volevo recuperare l'altro quarto e sentirmi finalmente appagata, dopo aver dato un senso alla mia esistenza.
Il sabato era terminato, e mentre le mie compagne dormivano, nel bagno parlavo al telefono con Valeria. Mi chiamava ogni sera, per farmi compagnia e augurarmi la buonanotte; a casa non succedeva sempre perchè la consideravamo cosa scontata e così eravamo lontane, ora invece,  lontane fisicamente sentivamo il bisogno di essere vicine e lo facevamo in modo semplice , con poche parole e tanto amore.

venerdì 1 ottobre 2010

La mattina del sabato la nostra stanza fu al completo; infatti prima del passaggio dei medici era stata ricoverata Lucia, una signora di ottantotto anni che accusava un'eccessiva debolezza accompagnata da un esagerato pallore. Con lei erano il figlio e la nuora, quest'ultima in particolare molto premurosa nei suoi confronti tanto da sembrare proprio una figlia. Lucia, a differenza di mamma Ripalta e di Rosaria, aveva qualche difficoltà di adattamento; avrebbe voluto ricreare l'ambiente della sua casa, ritrovare i sapori della sua cucina, ristabilire le sue abitudini, i suoi orari anche a nostro discapito. Per il cibo ci avrebbe pensato Rosa, sua nuora che il giorno dopo le avrebbe portato la pizza con le cipolle e le orecchiette al forno, per il resto ci pensò mamma Ripalta, regina della convivenza, che le fece capire senza mezzi termini che il " mobilio " era di tutte, che se voleva dormire alle otto di sera poteva anche farlo ma con la luce accesa e se proprio le dava fastidio un bel fazzoletto sugli occhi le avrebbe dato l'oscurità necessaria. Straordinaria mamma Ripalta, capace di un umorismo semplice e schietto che le veniva spontaneo dalla sua natura gioiosa. Rosaria aveva assistito a quel "duetto " senza parlare ma annuendo prima ad una e poi all'altra per non far torto a nessuna delle due. Ed io? Beh , mi divertivo per quella diatriba, provavo tenerezza per Lucia che a tratti assumeva gli atteggiamenti indifesi e anche capricciosi di una bambina, e per Rosaria che non smentiva la sua natura estremamente accomodante e il buon carattere mite e generoso. Ero contenta e mi trovavo a mio agio con quelle compagne di stanza, care ed affettuose, nei miei confronti dolci e protettive, perchè per ognuna potevo essere una figlia che si trovava a dover fronteggiare una situazione difficile e aveva bisogno di forza e coraggio oltre che di tanta serenità. Per questo cercavano di non farmi pensare troppo, mi raccontavano le loro storie e mi incoraggiavano ad andare avanti sulla strada che avevo preso perchè era quella giusta.