lunedì 11 ottobre 2010

Al mattino aprivo gli occhi e me ne beavo, godendo della bellezza stessa di poterli aprire. Guardavo la sveglia sul comodino, il piccolo elfo delle coccole, la vestaglia sulla spalliera del letto e mi appagava; poi li richiudevo per un attimo e quel po' di buio oscurava le piacevoli sensazioni e lasciava riemergere l'ansia. Mi levavo di scatto, di scatto davo inizio alla mia giornata  per non pensare; avrei voluto sempre accanto qualcuno che mi dicesse che era tutto un brutto sogno o che ciò che  stava accadendo sarebbe passato presto, avrei voluto essere rincuorata, avrei voluto un sostegno. Ma a cosa sarebbe servito? Se cerchi sempre un appoggio non impari mai a stare in piedi. Questo mi ripetevo in un turbinio di pensieri quando incontrai per la prima volta l'oncologo, il dottor A. C. Si affacciò alla porta della mia stanza con un sorriso pronunciando il mio cognome, poi mi fece strada verso la medicheria dove ci accomodammo ed iniziò il nostro colloquio. " Stia tranquilla, signora, sono qui per aiutarla; penso che le abbiano spiegato la sua situazione e la necessità imposta dalle dimensioni del suo tumore di sottoporla ad alcuni cicli di terapia neoadiuvante proprio per ridurle, poter operare in campo sterile e constatarne la risposta. E' importante che lei sia consapevole e per questo è mio dovere informarla con coscienza, con estrema chiarezza e sincerità, senza tralasciare nulla. Vedrà, riuscirà ad essere serena e in questo modo potrà guarire. " " Ma davvero posso guarire? Posso farcela? " "Vede, è un impegno reciproco; lei deve fare la sua parte, noi ci impegneremo nella nostra e al 99% ce la farà. Ma solo il buon Dio sa quando il cerchio si chiude e  allora nessuno può e nulla serve. " Pur nella piena consapevolezza della realtà, certo non erano le parole che avrei voluto sentire in quel momento; tutti dobbiamo morire,si sa, ma io ero nella condizione psicologica di sentire la precarietà umana più forte rispetto ad altri, per questo fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso.

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