martedì 3 marzo 2020

CIÒ CHE NON SI DICE... QUELLO CHE NON SI SA




I figli a volte, per non dire quasi sempre, per partito preso amano contraddire, pare un tira e molla, parlare e tacere, chiedere e rifiutare. Non vogliono palesarsi, mostrare il "bello" che è in loro, forse lo intendono sintomo di debolezza, e si armano di una corazza che copre l'anima.
Intanto sono simili a Noi molto più di quel che appare. Desideriamo questa cosa, lo speriamo tanto, ma spesso ci sembra impossibile, anche perché Loro non perdono occasione per sottolineare che è "assolutamente impossibile".
E non è così, perché "inconfutabilmente vero" che soffrono, amano, ricordano...
Invito a leggere il testo che segue, è stato scritto da Vincenzo, che da oggi è in questo gruppo. È mio nipote, e anche qualcosa in più, io lo chiamo "mio figlio di latte", perché da piccino ne prese un po' del mio, una sera...
Oggi leggendo mi sono così emozionata da sentirmi fiera di Lui, per quanto è stato bravo ma pure per quanto è bello dentro.
Oltre un metro e novanta di sensibilità...
"Ventotto, ventinove, trenta".
Da piccolo giocavo a contare i gradini mentre salivo le rampe di scala nell'androne di quel palazzo in viale Di Vittorio. Tutte le volte sempre così, fino al campanello e alla porta d'ingresso che puntualmente trovavo aperta dopo l'annuncio al citofono.
Mi fiondavo in casa ed erano baci ed abbracci.
"Trentuno, trentadue, trentatré".
Nella testa sfilano in rapida sequenza i pranzi domenicali, i ravioli al sugo, le braciole, le riunioni natalizie in famiglia, i sabato sera trascorsi tra una scazzottata con Bud e Terence e le smorfie di Corrado e del maestro Pregadio.
Impossibile stabilire quante volte abbia varcato quella soglia: di sicuro c'è che non ci ho mai esitato davanti. Eppure, stavolta, mi sento frenato come se una mano mi trattenesse dal giubbotto. Il viaggio in treno- inaspettatamente lungo- mi ha stancato e impuzzolito tanto che, a quella mano immaginaria, il giubbotto lo lascerei volentieri.
La porta è socchiusa, la spingo con una mano e come sempre ad accogliermi c'è la consolle all'ingresso, con la sua grande specchiera. Adornata da putti, frutta e motivi floreali scolpiti, è sempre stata l'orgoglio di mia nonna per cui rappresentava il biglietto da visita della casa. Ho caldo, sono pure sudaticcio e finalmente mi sfilo quel maledetto giubbotto che si è fatto incredibilmente pesante.
Di fronte a me si staglia il lunghissimo corridoio che porta alla cucina e alle altre stanze: come in attesa di chissà cosa, stazionano volti familiari che mi guardano, riconoscendomi. Li saluto frettolosamente mentre gli sfilo in mezzo e tiro dritto verso la sala da pranzo. Nella stanza saranno in quindici almeno.
La tenda davanti alla porta finestra si muove al ritmo del leggero soffio di vento che offre attimi di ristoro. Il termometro esterno indica 17 gradi, in un febbraio che tradisce l'inverno e strizza l'occhio alla primavera.
L' importante lampadario in ferro lavorato con i suoi pendagli in swarovski sembra osservare tutta la stanza dall'alto, mentre l'arazzo sulla parete a destra mostra fiero le sue scene di caccia. A sinistra, l'orologio a pendolo e la cristalliera, custode di servizi di piatti e suppellettili di ogni foggia. Pure la bomboniera ricordo del mio battesimo è sempre lì dentro.
Tutto è dov'è sempre stato.
Tutto o quasi.
Il massiccio tavolo in legno al centro della stanza non c'è.
Da buon meridionale non mi sono mai chiesto perché continuiamo ad osservare certe tradizioni, usi e costumi; sono evidentemente parte di me ed è probabilmente per questo che non mi ha mai impressionato vedere una bara nel bel mezzo di una stanza, in un appartamento.
Ma stavolta è diverso, un dritto in pieno volto avrebbe fatto meno male.
Vincenzo de Filippo.
Si chiama come me, o meglio, io mi chiamo come lui ed è lì dentro, vestito di tutto punto e circondato da merletti e cuscini rivestiti di raso bianco.
Spesso mi sono sentito dire che Vincenzo non fosse un granché come nome ma la cosa non mi ha mai infastidito.
Anzi, me ne sono sempre fregato. La verità è che di quel nome ho sempre sentito il peso, manco fossi l'ultimogenito della stirpe Maldini. Avverto una grande responsabilità nell'indossare il nome di una persona la cui fama di uomo integro, buono, generoso all'inverosimile, lo ha sempre preceduto.
E, come se non bastasse, qualche anno prima ci si era messo pure lui a ricordarmi che quella era l'eredità più importante che mi avrebbe lasciato: come nel più classico passaggio di consegne, in un 5 aprile, il giorno del nostro onomastico, mi donò un suo bracciale che ormai teneva custodito tra gli oggetti preziosi. Un bracciale d'oro dal peso indefinibile e dalle grandi maglie, unite da una piastrina su cui è inciso il nome che portiamo entrambi.
Me l'aveva promesso.
E gli sguardi di chi è qui a salutarlo sembrano confermarmi quella responsabilità che percepisco.
Mio padre ed i suoi tre fratelli sembrano guardie di piantone che da diversi angoli della stanza lo sorvegliano da lontano. Appena possono lasciano a turno la postazione di guardia, gli si siedono accanto e gli si avvicinano all'orecchio quasi a volergli parlare.
Gli occhi gonfi, i volti rigati dalle lacrime mi confermano una volta di più che alla morte non ci si abitua mai, neppure quando è annunciata.
Ogni tanto si fa spazio anche qualche sorriso, certo, ma è il solito dolore che gioca concedendo attimi di tregua per portarti sull' ottovolante delle emozioni. Quando cominci a provare sollievo, quello ti riporta giù in un attimo, mica puoi distrarti.
Guardo mio padre, è fermo lì con lo sguardo di chi è altrove con i pensieri ma comunque lucido e costantemente connesso col mondo circostante.
Una certezza, come sempre.
"Li facciamo entrare? Tra un po' è ora di andare" comunica mio zio ai suoi fratelli, riferendosi all'arrivo dei necrofori. Nel giro di un paio d'ore dobbiamo trovarci in chiesa per il funerale.
Ecco, se fra cento anni dovessero chiedermi quale sia il momento con maggiore impatto emotivo che io ricordi, sono assolutamente certo che risponderei descrivendo gli attimi in cui quelli in giacca e cravatta hanno iniziato a sigillare la cassa. Credo che la visione di quella scena dovrebbe essere vietata a chiunque: per quanta esperienza tu possa aver maturato e seppure tu abbia abbastanza primavere da averne viste tante, quel momento è impareggiabilmente straziante.
Mio padre è distante un paio di metri per non essere d'intralcio e no, non ce l'ha fatta, e si è finalmente abbandonato alle lacrime.
Scendono via incontrollate, testimoni di una separazione insopportabile. Scendono incontrollate su un volto che cerca di non tradire sofferenza con le sue espressioni.
È la prima volta che lo vedo in quel modo, o forse è solo la prima volta che vivo una circostanza del genere con coscienza adulta.
I tempi si fanno tremendamente lunghi: dopo aver chiuso il feretro con uno spesso guscio di alluminio (o almeno credo lo fosse), viene saldato a caldo al legno, accuratamente.
Mimmo, mio padre -all'anagrafe Domenico- è fermo, immobile, con le lacrime che scendono lentamente e gli occhi che non smettono di gonfiarsi e ogni tot si asciuga con un fazzoletto che stringe in una delle mani che tiene incrociate davanti a sé.
Non è la prima volta che avverto l'istinto di farlo ma di sicuro è la prima volta che rompo gli indugi: mettendo da parte quello sciocco pudore che aveva sempre frenato gesti simili, lo affianco e lo abbraccio tenendolo per il fianco destro. Passano una manciata di secondi e mio fratello, dalla parte opposta, fa lo stesso. E restiamo così per tutto il tempo delle operazioni.
Nella tristezza, sono felice.
Cosa rappresentasse mio nonno per mio padre l'ho capito nella notte del 31 dicembre, neppure due mesi prima.
Le lenticchie, lo zampone, la tovaglia ed i tovaglioli rossi; lo spumante e il panettone, la tombola ed il conto alla rovescia.
Mio padre era lì con noi, alla tavola del nonno materno, ma solo fisicamente.
Per cui, dopo cena, poco dopo le 23, ha lasciato la festa a cui non voleva partecipare.
E sebbene suo padre fosse acciaccato e ormai a letto da tempo, probabilmente già dormiente, ha atteso la mezzanotte da lui e con lui. Da soli.
Lo avrei seguito se fossi stato un uomo fatto e finito. Ma non l'ho fatto.
Ma chi mai avrebbe preferito il silenzio di una stanza -con tutta l'aria di una stanza da lungodegenza- ai fuochi d'artificio e all'aria di festa in cui erano tutti?
Non mi ci è voluto molto per rispondere che si, solo chi è innamorato lo avrebbe fatto.
E lui lo era.
In quel gesto ho visto esprimersi tutta la riconoscenza di un figlio verso il proprio genitore.
È un insegnamento impresso a fuoco sul cuore.
Ed è qui quella che considero la seconda fregatura della mia vita: assieme al nome di mio nonno porterò pure l'insegnamento di una coscienza a cui dovrò sempre render conto di tutto ciò che faccio, dando peso ad ogni gesto perché sia nel buono e giusto.
E diamine, avrei preferito in dono un pizzico di superficialità in più, quella che sarebbe bastata a non condannarmi ogni volta che faccio una cazzata, come fossi Lucifero davanti a Dio. O peggio, come davanti a Mara Maionchi di fronte ad una performance imbarazzante. Per me è no, Vincenzo!
Il compito è arduo e il cammino tutto in salita: sono sulla soglia degli "anta" e alle calcagna ho le crisi esistenziali che cercano in tutti i modi di attirare la mia attenzione.
Non so ancora cosa farò da grande - si, lo so che i quaranta sono dietro l'angolo! - ma so esattamente cosa voglio essere.
Io voglio essere Vincenzo e Mimmo.
Mi piace immaginare che a mio nonno sia già arrivata voce, mentre spero che qualcuno lo faccia leggere a mio padre perchè, ahimè, mai riuscirei a dirglielo in faccia.
Prima o poi, chissà, capirò perché è così facile mandarsi a cagare e così difficile parlare d'amore.
Metto il punto, "salva oggetto con nome", chiudo word.
Nicola di Bari gira su Spotify, in cuffia.
"La prima cosa bella che ho avuto dalla vita..."
Piango.
Buona vita a me.

2 commenti:

  1. Ci siamo emozionate
    Buona vita a te
    Vincenzo e Mimmo.
    Un bacio dalle apine

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  2. Molto bello e profondamente sentito, denso di molti significati. Vincenzo continua a vivere attraverso questa testimonianza.

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