Ultimo incontro del GAMA prima delle festività pasquali, all'insegna dell'Accettazione e dell'Apertura. Doveva essere occasione di approfondimento della tecnica ACT nella relazione di cura, si è alla fine risolto con l'opportunità per alcuni di Noi, ma comunque con il coinvolgimento totale di Tutti, di mettersi a nudo completamente. Sofferenze, problematiche, difficoltà e strategie riguardanti la patologia che tra le tante ancora spaventa di più.
Già, purtroppo non c'è nulla da fare, il Cancro... solo nel pronunciarne il termine... evoca morte e perdita di speranza, quindi... grande paura. Dal momento della diagnosi, si fissano nella mente tre parole. IO SONO MALATO (fusione cognitiva). E ci si identifica con la malattia e le sue conseguenze. Ovvero, sentirsi orrendo e penalizzato a tal punto da non vivere pienamente e non mettere in atto ciò che si desidera. E' chiaro che, in assenza di grave sofferenza fisica, non è la malattia ad essere di ostacolo bensì il soggetto stesso che amplifica sensazioni ed emozioni, spingendosi oltre il momento che vive.
Tutto questo quando la malattia è presente, in atto nella Nostra vita. Quando invece solo l'idea lambisce la mente, oppure è diventata parte di un passato impossibile da dimenticare, con il pensiero ricorrente di un eventuale ritorno, proviamo mai ad immaginare il Nostro atteggiamento nella condizione di massima fragilità fisica e psicologica?
Questa la domanda che ci è stata posta dallo psiconcologo. E da quel momento in poi si è accesa la "discussione", sfociata poi in un "outing" dopo l'altro, col racconto di storie ed esperienze che evidenziano nella diversità degli atteggiamenti e delle reazioni, l'unico punto in comune. La tendenza a superare in ogni modo e con qualsiasi strategia i momenti più critici.
Qualcuno ha affermato che l'"allenamento" a pensare se stesso nel dolore non poteva essere valido e nemmeno comprensibile, al massimo sarebbe stato di "conforto" pensando ad altri in condizioni peggiori. Altri hanno espresso la volontà di dimenticare il peggio vissuto e non pensare all'eventualità futura, ma ringraziare per l'identità ritrovata. Un paziente ha sottolineato le Sue difficoltà oggettive nella quotidianità a causa di una mutilazione, su cui impossibile sorvolare perché evidente.
E poi ci sono stati altri interventi, compreso il mio, perché certi stati d'animo, anche a distanza di tempo e in particolari condizioni, riacquistano l'immediatezza di una ferita in fondo sempre aperta.
Quello che però ha colpito di più è stata la testimonianza di una persona che dopo quasi cinque anni non aveva messo in conto la possibilità di un ritorno della malattia. L'ha scoperto per caso, e non voleva crederci. Se ci sono state altrui responsabilità precise per superficialità o quant'altro non si può dire, né servirebbe saperlo a questo punto. Ciò che serve è non disperdere le energie indispensabili per "focalizzare" il problema e darsi da fare. La casualità, il destino, un percorso stabilito già nel DNA... è questo che avviene. Gli altri esseri umani che ci ruotano intorno sono responsabili solamente perché sono parte della stessa realtà.
Già, purtroppo non c'è nulla da fare, il Cancro... solo nel pronunciarne il termine... evoca morte e perdita di speranza, quindi... grande paura. Dal momento della diagnosi, si fissano nella mente tre parole. IO SONO MALATO (fusione cognitiva). E ci si identifica con la malattia e le sue conseguenze. Ovvero, sentirsi orrendo e penalizzato a tal punto da non vivere pienamente e non mettere in atto ciò che si desidera. E' chiaro che, in assenza di grave sofferenza fisica, non è la malattia ad essere di ostacolo bensì il soggetto stesso che amplifica sensazioni ed emozioni, spingendosi oltre il momento che vive.
Tutto questo quando la malattia è presente, in atto nella Nostra vita. Quando invece solo l'idea lambisce la mente, oppure è diventata parte di un passato impossibile da dimenticare, con il pensiero ricorrente di un eventuale ritorno, proviamo mai ad immaginare il Nostro atteggiamento nella condizione di massima fragilità fisica e psicologica?
Questa la domanda che ci è stata posta dallo psiconcologo. E da quel momento in poi si è accesa la "discussione", sfociata poi in un "outing" dopo l'altro, col racconto di storie ed esperienze che evidenziano nella diversità degli atteggiamenti e delle reazioni, l'unico punto in comune. La tendenza a superare in ogni modo e con qualsiasi strategia i momenti più critici.
Qualcuno ha affermato che l'"allenamento" a pensare se stesso nel dolore non poteva essere valido e nemmeno comprensibile, al massimo sarebbe stato di "conforto" pensando ad altri in condizioni peggiori. Altri hanno espresso la volontà di dimenticare il peggio vissuto e non pensare all'eventualità futura, ma ringraziare per l'identità ritrovata. Un paziente ha sottolineato le Sue difficoltà oggettive nella quotidianità a causa di una mutilazione, su cui impossibile sorvolare perché evidente.
E poi ci sono stati altri interventi, compreso il mio, perché certi stati d'animo, anche a distanza di tempo e in particolari condizioni, riacquistano l'immediatezza di una ferita in fondo sempre aperta.
Quello che però ha colpito di più è stata la testimonianza di una persona che dopo quasi cinque anni non aveva messo in conto la possibilità di un ritorno della malattia. L'ha scoperto per caso, e non voleva crederci. Se ci sono state altrui responsabilità precise per superficialità o quant'altro non si può dire, né servirebbe saperlo a questo punto. Ciò che serve è non disperdere le energie indispensabili per "focalizzare" il problema e darsi da fare. La casualità, il destino, un percorso stabilito già nel DNA... è questo che avviene. Gli altri esseri umani che ci ruotano intorno sono responsabili solamente perché sono parte della stessa realtà.
Nessun commento:
Posta un commento