Dunque... dicevamo? Si può ancora parlare di "malati terminali?
Cambiano i tempi e il senso attribuito alla malattia, non ci si esprime più come una volta. Quando "per convenzione" il malato oncologico era comunque "a scadenza". Più o meno tirava a campare, ma il Suo destino era segnato.
Le fasi della malattia occupavano un tempo limitato che volgeva al termine nel momento stesso che veniva pronunciata la fatidica frase...non c'è più niente da fare, e si apriva la prospettiva delle "cure palliative". Qualcosa si poteva in nome della pietà, per non veder soffrire, ora si può non perdendo di vista la "persona" che ha tutto il diritto di non patire.
Cambia completamente l'ottica, si parte "dal basso", dal paziente e i Suoi bisogni, per arrivare alla "visione globale" che include le figure professionali.
Si è detto che il dolore oncologico è di tipo cronico, non solo sensoriale perché è collegato anche a quello psicologico. Non è diverso... ma dovuto al cattivo funzionamento dell'organismo intero.
Qualcosa per arginare l'eventuale sofferenza futura si può, anzi fin dall'inizio, quando si instaura un rapporto di fiducia tra oncologo e paziente. E' il primo atto terapeutico. La sensazione di essere considerati e protetti migliora la cura, e la consapevolezza acquisita fa calare visibilmente lo stato d'ansia.
Forte ed efficace è la testimonianza dell' Associazione "Antea"... il dolore fa paura a tutti i livelli, e si teme la perdita della dignità. Ci si occupa di "persone" quindi, compresi i membri di tutta la famiglia e in particolare di "chi si prende cura". Statistiche alla mano, i "caregiver" rischiano di ammalarsi a loro volta, ricorrere a psicofarmaci, perdere il posto di lavoro. Non possono essere lasciati soli, hanno il diritto ad essere ascoltati e supportati psicologicamente. E pure le "difficoltà burocratiche" andrebbero ridimensionate, in quanto vanno a caricare il già pesante fardello di Chi si prende cura.
Un "dolore burocratico" che rende più greve e grave il senso di abbandono. La solitudine nella malattia.
(continua...)
Cambiano i tempi e il senso attribuito alla malattia, non ci si esprime più come una volta. Quando "per convenzione" il malato oncologico era comunque "a scadenza". Più o meno tirava a campare, ma il Suo destino era segnato.
Le fasi della malattia occupavano un tempo limitato che volgeva al termine nel momento stesso che veniva pronunciata la fatidica frase...non c'è più niente da fare, e si apriva la prospettiva delle "cure palliative". Qualcosa si poteva in nome della pietà, per non veder soffrire, ora si può non perdendo di vista la "persona" che ha tutto il diritto di non patire.
Cambia completamente l'ottica, si parte "dal basso", dal paziente e i Suoi bisogni, per arrivare alla "visione globale" che include le figure professionali.
Si è detto che il dolore oncologico è di tipo cronico, non solo sensoriale perché è collegato anche a quello psicologico. Non è diverso... ma dovuto al cattivo funzionamento dell'organismo intero.
Qualcosa per arginare l'eventuale sofferenza futura si può, anzi fin dall'inizio, quando si instaura un rapporto di fiducia tra oncologo e paziente. E' il primo atto terapeutico. La sensazione di essere considerati e protetti migliora la cura, e la consapevolezza acquisita fa calare visibilmente lo stato d'ansia.
Forte ed efficace è la testimonianza dell' Associazione "Antea"... il dolore fa paura a tutti i livelli, e si teme la perdita della dignità. Ci si occupa di "persone" quindi, compresi i membri di tutta la famiglia e in particolare di "chi si prende cura". Statistiche alla mano, i "caregiver" rischiano di ammalarsi a loro volta, ricorrere a psicofarmaci, perdere il posto di lavoro. Non possono essere lasciati soli, hanno il diritto ad essere ascoltati e supportati psicologicamente. E pure le "difficoltà burocratiche" andrebbero ridimensionate, in quanto vanno a caricare il già pesante fardello di Chi si prende cura.
Un "dolore burocratico" che rende più greve e grave il senso di abbandono. La solitudine nella malattia.
(continua...)
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