E concludiamo pure questa giornata, faticosa, tribolata insomma diversa dalla normalità come la si può intendere, per me più o meno uguale a quelle che trascorro in ospedale.
In ospedale anche oggi, quindi ma non da volontaria e nemmeno da paziente, bensì da caregiver.
Brava, mi è stato detto... dalla teoria alla pratica. Fai bene, così impari! Sembra quasi un rimprovero o un castigo, in realtà lo è diventato in corsa, durante le ben cinque ore di attesa.
Di solito vivo bene le attese, ho imparato a "digerirle", a farne esercizi di pazienza e antistress. Del resto non essendoci alternativa, tanto vale sfruttarle a proprio vantaggio. Mi guardo intorno, osservo la gente e ne colgo le particolarità, mi "assemblo" all'ambiente così da sentirlo familiare. Nel giro di un'ora al massimo è come fosse la mia casa. Bello spirito d'adattamento, eh!? Magari solo coraggioso tentativo di sopravvivenza. Comunque ci riesco sempre.
Ma quando le ore si allineano, e poi si accavallano, e per giunta non sei da sola ad aspettare, e quelli che sono con te cominciano a sentirsi vittime di massimo sopruso, che succede?
Succede che non respiri più normale, così affannata a stare dietro, a cercare di far comprendere che lì, in ospedale così vanno le cose, i tempi sono assai dilatati, sai quando arrivi e non saprai mai quando sarai fuori. Alla fine potrebbe capitare pure di uscire e non accorgertene. Per assuefazione ad habitat che non ti appartiene. Ma soprattutto non c'è alcun sopruso. Le priorità sono ben rispettate. La Vita innanzitutto, però quella traballante che va rimessa in piedi, fradicia di lacrime da asciugare, pallida e ansimante di pena. La Nostra, che bene o male regge, può aspettare. Siamo acciaccati e strani, ma vivi, e le attese sono solo per i vivi. Ché se tutto passa, anche quelle... brevi o lunghe... passeranno.
In ospedale anche oggi, quindi ma non da volontaria e nemmeno da paziente, bensì da caregiver.
Brava, mi è stato detto... dalla teoria alla pratica. Fai bene, così impari! Sembra quasi un rimprovero o un castigo, in realtà lo è diventato in corsa, durante le ben cinque ore di attesa.
Di solito vivo bene le attese, ho imparato a "digerirle", a farne esercizi di pazienza e antistress. Del resto non essendoci alternativa, tanto vale sfruttarle a proprio vantaggio. Mi guardo intorno, osservo la gente e ne colgo le particolarità, mi "assemblo" all'ambiente così da sentirlo familiare. Nel giro di un'ora al massimo è come fosse la mia casa. Bello spirito d'adattamento, eh!? Magari solo coraggioso tentativo di sopravvivenza. Comunque ci riesco sempre.
Ma quando le ore si allineano, e poi si accavallano, e per giunta non sei da sola ad aspettare, e quelli che sono con te cominciano a sentirsi vittime di massimo sopruso, che succede?
Succede che non respiri più normale, così affannata a stare dietro, a cercare di far comprendere che lì, in ospedale così vanno le cose, i tempi sono assai dilatati, sai quando arrivi e non saprai mai quando sarai fuori. Alla fine potrebbe capitare pure di uscire e non accorgertene. Per assuefazione ad habitat che non ti appartiene. Ma soprattutto non c'è alcun sopruso. Le priorità sono ben rispettate. La Vita innanzitutto, però quella traballante che va rimessa in piedi, fradicia di lacrime da asciugare, pallida e ansimante di pena. La Nostra, che bene o male regge, può aspettare. Siamo acciaccati e strani, ma vivi, e le attese sono solo per i vivi. Ché se tutto passa, anche quelle... brevi o lunghe... passeranno.
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